Agricoltura
L’economist contro la spesa etica

L’articolo dell’economist Good food? Why ethical shopping harms the world era uscito a dicembre e ha scatenato un putiferio nel mondo del biologico e del commercio equo. Ho in mente di spezzettarlo e di affrontare una alla volta le questioni che solleva.
L’apertura dell’articolo è sul voto commerciale, ovvero su come i consumatori etici stiano cambiando il mondo facendo la spesa. La chiave del successo è nella sensazione di giustizia e di impegno personale che il consumatore prova nel momento di scegliere un prodotto etico invece di uno non etico (e con etico considerate biologico, fair trade, locale…). La spesa consapevole (premiare i bravi) ha sostituito il boicottaggio (evitare i cattivi).
Nel Regno Unito la maggior parte dei consumatori di prodotti bio dice di esserlo perché preoccupata per lo stato dell’ambiente. (In Italia la gente crede che il biologico sia migliore per la propria salute.) Qui l’economist attacca, citando il Nobel per la pace Norman Borlaug, convinto sostenitore dell’agricoltura chimica. La tesi di Borlaug è che le rese inferiori dell’agricoltura biologica richiederebbero molti terreni agricoli per sfamare l’umanità. Troppi, se vogliamo preservare anche zone di territorio da destinare ad altro (ad esempio alla conservazione della natura).
L’istituto biologico italiano ha pubblicato una piccola guida all’agricoltura bio in cui leggo che la resa del biologico e’ del 10-20% minore dell’agricoltura convenzionale. Non serve un altro pianeta, basta migliorare la distribuzione, limitare gli sprechi e si mangia tutti.
La domanda di un lettore di ecoblog (Sean) apre anche la dimensione temporale del problema. “Coltivare chimico rende di più adesso, ma per quanti anni il suolo resta produttivo?” A furia di ararlo, rivoltarlo, scavarlo e dilavarlo il suolo della fertile Pianura Padana ha perso buona parte delle sue caratteristiche naturali.
Più che una questione di spazi potrebbe essere una questione di soldi: coltivare bio costa di più, ma chiudo con una domanda economica: i costi della rivoluzione verde sono scaricati sulla collettività (eutrofizzazione, perdita di biodiversità, inquinamento delle falde, …) come sarebbe il bilancio dell’agricoltura se riportassimo questi costi all’interno del sistema? Le pere chimiche costerebbero ancora meno di quelle bio?
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