Quello della pizza, in Italia, è un business da 10 miliardi di euro, distribuito su 63mila pizzerie o locali che la vendono al taglio, per l’asporto o con la consegna a domicilio. L’intera filiera dà lavoro a 150mila persone. Ecco perché la candidatura della pizza nella lista Unesco del patrimonio culturale immateriale dell’umanità è stata consegnata alla Commissione italiana Unesco con 300mila firme raccolte da Coldiretti insieme all’Associazione Pizzaiuoli Napoletani e alla fondazione UniVerde dell’ex ministro dell’Agricoltura Alfonso Pecoraro Scanio.
Ogni giorno, nel nostro Paese, si sfornano 5 milioni di pizze, anche se va detto che i consumatori più forti al mondo non sono, come si potrebbe credere, gli italiani (che ne mangiano “solo” 7,6 kg all’anno), ma gli statunitensi che nella loro versione (che ben poco ha a che spartire con l’originale) ne consumano 13 chili all’anno.
Il patrimonio immateriale dell’Unesco comprende 348 elementi fra cui sei italiani: l’Opera dei pupi (iscritta nel 2008), il Canto a tenore (2008), la Dieta mediterranea (2010), l’Arte del violino a Cremona (2012), le macchine a spalla per la processione (2013) e la vite ad alberello di Pantelleria (2014). Anche se la pizza può rientrare benissimo all’interno della Dieta mediterranea pare davvero scontato che il negoziato internazionale che coinvolgerà 163 Stati con valutatori internazionali si concluda positivamente. Perché sul fatto che la pizza sia un patrimonio della gastronomia italiana non ci sono dubbi.
Perché sarebbe importante che entro il 15 novembre 2016 l’Italia riuscisse ad ottenere questo riconoscimento? Alla Coldiretti sulla questione hanno le idee chiare: la pizza è “un prodotto simbolo dell’identità nazionale conosciuto in tutto il mondo”, spiega il presidente Roberto Moncalvo aggiungendo che
quando un prodotto diventa globalizzato il rischio è che se ne perda l’origine ed è proprio il caso dell’arte della pizza.
A livello paesaggistico, l’ultimo sito italiano a essere stato inserito è quello di Monferrato, Langhe e Roero ovvero le tre zone che coprono il 90% della produzione vinicola del Piemonte.
Via | Coldiretti
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