Homo Naledi, è questo il nome attribuito alla nuova specie umana la cui scoperta è stata annunciata oggi dalla University of Witswaterstrand di Johannesburg, dalla National Geographic Society e dal Dipartimento per la Scienza e la Tecnologia/National Research Foundation del Sudafrica.
Il ritrovamento dei resti dell’Homo Naledi è infatti avvenuto in Sudafrica, per la precisione nella grotta chiamata Rising Star che si trova a circa cinquanta chilometri dalla capitale Johannesburg. Una grotta quasi inaccessibile, tanto che per la missione è stato necessario arruolare un team di speleologi particolarmente magri e in grado quindi di infilarsi in ostici pertugi.
Ne è valsa la pena, però, perché i 1.500 elementi fossili che sono stati recuperati tra il 2013 e il 2014 – e già assemblati, in modo da fornire questa nuova specie di uno scheletro pressoché integro – dimostrano che Homo Sapiens, Homo di Neanderthal e gli altri già noti non completano il quadro degli “antenati” dell’uomo.
I frammenti recuperati, compresi quelli utilizzati per ricostruire lo scheletro, appartengono a una quindicina di individui diversi: con età, altezza, massa differente. Ciononostante alcuni tratti tipici di questa nuova specie umana si iniziano a intuire: un metro e mezzo di altezza, circa 45 chili di peso. Il cranio e le dimensioni del cervello sono piccole, come quelle classiche dell’Homo erectus. La parte superiore del corpo sembra adatta all’arrampicamento, come quella dell’Australopithecus afarensis. I piccoli denti ricordano quelli di specie umane più recenti.
Si nota anche però un pollice forte e un uso complesso del polso, che ricordano da vicino quelle dell’homo sapiens e che dimostrano un uso regolare di questi strumenti. E però, le dita ricurve sono un ulteriore dimostrazione di come questo ominide fosse un grande arrampicatore. Si pensa anche che usasse già seppellire i propri morti.
Per il momento, anche a causa di tutte queste peculiarità, è impossibile capire dove collocare, in termini temporali, l’Homo Naledi. Anche perché utilizzare i classici strumenti per la datazione si sta rivelando particolarmente complicato, a causa dell’isolamento completo in cui questi resti sono stati ritrovati. E c’è anche la possibilità che si tratti di una specie sopravvissuta a lungo, anche in tempi relativamente recenti, nel più completo isolamento.
Quel che è certo è che questa scoperta, una volta di più, dimostra come l’idea di una evoluzione lineare dall’australopiteco all’homo sapiens sia da scartare. Mentre i tanti rami del nostro albero evolutivo si fanno sempre più complessi.
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