
Ti fanno più male delle sigarette: gli esperti mettono in guardia, li usiamo ogni giorno - ecoblog.it
Un’analisi su oltre novemila adulti mostra come i cibi industriali aumentino l’infiammazione e il rischio di malattie croniche, proprio come accadde col tabacco.
I cibi ultraprocessati sono ormai protagonisti delle nostre tavole: snack confezionati, bevande zuccherate, piatti pronti, salse, dolci industriali. Tutti accomunati da una caratteristica: subiscono numerosi processi di lavorazione e contengono additivi, coloranti, conservanti ed emulsionanti. Questi ingredienti servono a renderli più appetibili, a prolungarne la conservazione e a garantire sempre lo stesso sapore. Ma dietro la loro apparente comodità si nasconde un rischio crescente per la salute.
Si tratta di alimenti “nuovi” per l’essere umano, introdotti solo negli ultimi decenni, e proprio come accadde per il tabacco, i loro effetti a lungo termine stanno emergendo solo oggi, dopo anni di consumo diffuso e incontrollato. In occasione della Giornata mondiale dell’alimentazione, un nuovo studio riaccende l’attenzione su un tema cruciale: il legame tra alimentazione industriale e infiammazione cronica.
Lo studio: più cibi industriali, più infiammazione
I ricercatori della Florida Atlantic University hanno analizzato i dati di 9.254 adulti statunitensi raccolti nel National Health and Nutrition Examination Survey, un grande archivio di informazioni sanitarie e nutrizionali. L’obiettivo era valutare le abitudini alimentari e i livelli della proteina C-reattiva ad alta sensibilità (hs-CRP), un importante marcatore di infiammazione sistemica, considerata alla base di molte malattie croniche: dal diabete di tipo 2 alle patologie cardiovascolari, fino a obesità, Alzheimer e tumori.
Dallo studio è emerso che i partecipanti assumevano in media il 35% delle calorie giornaliere da cibi ultraprocessati. Chi ne consumava meno restava tra lo 0% e il 19% dell’apporto calorico totale, mentre chi ne mangiava di più arrivava addirittura al 60–79%. Dopo aver corretto i dati in base ad altri fattori di rischio — età, peso, fumo e stile di vita —, i ricercatori hanno osservato un dato chiaro: chi ricavava oltre il 40% delle calorie da alimenti ultraprocessati aveva un rischio maggiore dell’11–14% di sviluppare infiammazione cronica.

Il pericolo cresceva ulteriormente nei soggetti obesi, nei fumatori e nelle persone tra i 50 e i 59 anni, dove l’aumento del rischio raggiungeva il 26%. L’obesità, in particolare, amplificava il pericolo fino all’80%, mentre i fumatori abituali mostravano un incremento del 17% rispetto a chi non aveva mai fumato. Curiosamente, chi non praticava attività fisica non presentava un aumento statisticamente significativo del rischio rispetto a chi seguiva le linee guida, segno che la dieta incide in modo autonomo sull’infiammazione. Questa infiammazione silenziosa, anche se lieve, danneggia progressivamente l’organismo e rappresenta una delle principali porte d’ingresso per malattie cardiovascolari e metaboliche. Gli autori sottolineano che non si tratta solo di una questione di calorie, ma di qualità degli alimenti: più un cibo è industriale e “lavorato”, maggiore è il suo potenziale infiammatorio.
Il paragone con il fumo e l’allarme dei ricercatori
Gli autori dello studio hanno paragonato la situazione attuale a quella del fumo di sigaretta negli anni ’50: all’inizio considerato innocuo, poi rivelatosi un pericolo mortale solo dopo decenni di studi. Anche in questo caso, avvertono gli scienziati, gli effetti dei cibi ultraprocessati si stanno manifestando lentamente, ma in modo inequivocabile.
Come spiega il dottor Hennekens, tra gli autori principali della ricerca, “le multinazionali che producono alimenti ultraprocessati oggi sono potenti quanto lo erano in passato le aziende del tabacco”. Per questo motivo, i cambiamenti politici e culturali necessari per promuovere una dieta più sana e naturale richiederanno tempo. Intanto, il marketing aggressivo e i prezzi accessibili di questi prodotti continuano a renderli quasi inevitabili nella dieta quotidiana di milioni di persone.
La ricerca si aggiunge a una lunga serie di studi che collegano i cibi ultraprocessati non solo all’infiammazione, ma anche a obesità, depressione e tumori. In particolare, gli autori citano un aumento dei casi di cancro al colon-retto tra i giovani adulti negli Stati Uniti, fenomeno che potrebbe essere in parte collegato all’alimentazione moderna, ricca di zuccheri, grassi saturi e additivi.Un recente studio italiano ha inoltre dimostrato che seguire una dieta mediterranea biologica può “spegnere” i geni associati all’infiammazione cronica, suggerendo un effetto protettivo diretto di un’alimentazione naturale e poco lavorata.
Oggi, la consapevolezza dei rischi sta crescendo, ma le azioni concrete restano lente. I cibi ultraprocessati — come hamburger, patatine fritte, snack confezionati e bibite gassate — continuano a dominare scaffali e pubblicità. Eppure, ogni nuovo studio conferma che ridurne il consumo non è solo una scelta salutista: è una strategia di prevenzione a lungo termine, capace di proteggere cuore, metabolismo e cervello. Mangiare meno prodotti industriali, preferendo alimenti freschi e integrali, non è solo un ritorno alla tradizione: è una forma di cura quotidiana per il corpo e per il futuro della salute pubblica.