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Cassazione Eternit, il muro dell’ingiustizia alla fine della strada

La sentenza della Cassazione Eternit è un colpo di spugna su quarant’anni di lotte di sindacati, associazioni delle vittime e magistratura

Alla fine di una strada lunga quarant’anni c’è un muro invalicabile. Il muro è quello di un diritto solido in una società liquida, di un sistema giudiziario totemico e immutabile nel quale, secondo le stesse parole del sostituto procuratore Francesco Iacoviello “il giudice tra diritto e giustizia deve sempre scegliere il diritto”. È la stessa difesa ad ammettere che “l’imputato è responsabile di tutte le condotte che gli sono state ascritte”, ma la sentenza emessa ieri sera dalla Corte di Cassazione ha ribaltato le due vittorie schiaccianti, limpide e “giuste” del primo grado e dell’Appello.

Ci sono voluti più di 5 anni e mezzo per arrivare al verdetto di un dramma che dura da decenni e che durerà per altri 20-30 anni almeno, perché il mesotelioma pleurico, la malattia di chi respira le fibre di amianto si nasconde nell’organismo per decenni prima di “esplodere”.

Ed è proprio per la natura stessa di questa malattia che il diritto diventa ingiustizia: il reato di disastro ambientale viene prescritto dopo 12 anni. L’“orologio” del diritto ha iniziato muoversi con la chiusura della fabbrica di Casale Monferrato, avvenuta nel 1986, e si è fermato nel 1998, molto prima del febbraio 2012, data della sentenza di primo grado, confermata nel giugno 2013 dalla Corte d’Appello di Torino.

L’“orologio” della giustizia ha lancette che si muovono più lentamente e che esauriranno il proprio giro dopo quarant’anni. I ricercatori prevedono che il picco delle malattie avverrà fra una dozzina d’anni, fra il 2025 e il 2026, proprio a quarant’anni dalla chiusura dello stabilimento di Casale Monferrato che è l’emblema della lotta italiana al colosso dell’amianto.

Eternit, quarant’anni di lotta per la giustizia

Per una strana coincidenza l’iter giudiziario del processo Eternit era cominciato il 6 aprile 2009, lo stesso giorno del terremoto dell’Aquila. Il processo al Palagiustizia di Torino è stato una pietra miliare nella storia della giurisprudenza del lavoro, l’atto conclusivo di 35 anni di rivendicazioni da parte dei sindacalisti Nicola Pondrano e Bruno Pesce e del pm Raffaele Guariniello, da quarant’anni principale difensore dei diritti dei lavoratori in Italia.

Fu proprio Nicola Pondrano, operaio alla Eternit di Casale Monferrato, a muovere le prime rivendicazioni all’inizio degli anni Settanta:

L’Eternit per Casale Monferrato era come la Fiat per Torino, un vero e proprio punto d’approdo, un luogo dove gli operai potevano assicurarsi un certo benessere. Gli stipendi erano decisamente superiori alla media, c’erano le colonie elioterapiche per i dipendenti e, soprattutto, turni studiati in modo da permettere a chi possedeva della terra di poterla coltivare. Quando arrivai in fabbrica appena ventiquattrenne, però, mi accorsi di quanta gente moriva dopo i 50 anni per problemi polmonari e iniziai a pormi delle domande. Venni subito etichettato come ‘rompicoglioni’ e, quindi, spostato dagli uffici alle aree maggiormente esposto alle polveri di amianto,

mi spiegò Pondrano in un’intervista raccolta nel dicembre 2009. Dall’incontro fra Pondrano e Pesce nacquero le prime rivendicazioni sindacali, una lotta per il diritto alla salute dei lavoratori che si scontrò, come accade all’Ilva di Taranto, con il diritto al lavoro:

Un giorno, davanti a un migliaio di operai, qualcuno mi gridò che sarebbe venuto a mangiare a casa mia. Quando la fabbrica chiuse nel 1986 io e Pesce ci mettemmo al lavoro per garantire a 380 operai rimasti a casa una qualche forma di tutela.

La strada che ha portato alla sentenza della Corte di Cassazione è cominciata a metà degli anni Ottanta, con le prime denunce accolte dalla magistratura per la malattia professionale e l’ordinanza con cui il sindaco Riccardo Coppo vietò l’utilizzo di manufatti in amianto nel comune di Casale Monferrato.

Nel 1992, grazie all’appoggio del vicepresidente del Senato, Luciano Lama, e del segretario confederale della Cgil, Fausto Vigevani, venne approvata la legge 257 che sanciva il divieto dell’estrazione, della lavorazione e della commercializzazione dell’amianto sul suolo italiano, riconoscendo ai fini pensionistici, un coefficiente di 1,5 agli anni trascorsi dai lavoratori a contatto con la fibra killer.

Ciò significa una cosa: nel 1992 la legge italiana si adeguò a un diverso “orologio”, a una diversa misurazione del tempo, andando incontro alla specificità del caso.

Quello che non ha fatto il diritto, permettendo a Stephan Schmidheiny di venire assolto ieri fra lo sconcerto dei familiari delle vittime dell’amianto. Diritto e giustizia non sono mai stati così distanti come oggi, tanto che Casale Monferrato ha deciso di proclamare il lutto cittadino.

Eternit, Schmidheiny non poteva non sapere

È sufficiente camminare fra le lapidi del cimitero casalese per avere la prova “solida” di quello che l’Eternit ha fatto a questa città illudendola di portare il benessere nelle sue strade e piazze: il numero delle persone decedute fra i 50 e i 60 anni è statisticamente spaventoso e assolutamente fuori media rispetto a quello di qualsiasi altro comune.

I casi di malattia, nel solo comune di Casale Monferrato, sono oltre 50 all’anno. Ci sono famiglie che sono state letteralmente distrutte, come quella di Romana Blasotti Pavesi che ha perso ben cinque famigliari (il marito, una sorella, una figlia, un nipote e una cugina) a causa dell’amianto.

Schmidheiny, giudicato colpevole nel primo e nel secondo grado, non poteva non sapere che l’amianto uccide. Non poteva non saperlo perché la prima causa di un lavoratore ammalatosi per avere respirato le fibre di asbesto risale al 1906. Non poteva non saperlo perché numerosi studi degli anni Sessanta avevano già provato il rapporto di causalità fra esposizione e malattia. Non poteva non saperlo perché già nel 1978 – cinque anni dopo aver preso il timone dell’azienda – in uno scambio epistolare con un dirigente di Casale, Schmidheiny consigliava di occultare la nocività dell’amianto per non creare eccessivo allarmismo nell’opinione pubblica.

Eternit, le strategie di comunicazione e di spionaggio

I vertici dell’Eternit tentano tutte le carte possibili affinché non si arrivi al processo. Nel 1994 viene redatto un Manuale sulle risposte della società sull’amianto in Italia nel quale i vertici di Eternit vengono “educati” sull’atteggiamento da tenere nei confronti della magistratura, dei manager, dell’assistenza legale, dei sindacati, del governo e delle amministrazioni locali. A “firmare” la strategia di comunicazione di Eternit è lo Studio Bellodi di Milano che suggerisce il low profile affinché il problema venga circoscritto alla stampa locale.

Nel 2003 viene redatto il documento Questions and answers che fornisce le risposte da dare ai media per salvaguardare immagine e reputazione dell’azienda. Fra i suggerimenti vi è quello di rimandare alla sede centrale elvetica.

Negli anni Novanta vengono attivate alcune “antenne” che hanno il compito di informare Eternit sull’evoluzione delle indagini preliminari compiute dalla Procura di Torino. Un vero e spionaggio con un informatore al Tribunale di Torino e una giornalista che si infiltra nelle riunioni della Cgil e del Comitato Familiari Vittime Amianto per passare informazioni alla società di pubbliche relazioni e ai legali di Eternit. Maria Cristina Bruno, autrice dei report mensili diretti a Eternit, è stata radiata dall’Ordine dei Giornalisti del Piemonte il 5 febbraio 2013 con l’accusa di avere “gravemente compromesso la dignità professionale fino a renderla incompatibile con la dignità stessa la sua permanenza nell’albo”.

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Eternit bis

Raffaele Guariniello ha detto ieri che si andrà avanti con l’Eternit bis. I famigliari delle vittime cercheranno giustizia con l’accusa di omicidio che, come ha sottolineato qualcuno ieri, avrebbe probabilmente garantito la vittoria delle parti civili anche in questo primo procedimento.

Conoscendo la tempra e la lucidità di Bruno Pesce e Nicola Pondrano immagino che sindacati e associazioni delle vittime non molleranno la presa, certo è che il verdetto di ieri è un groppo in gola difficile da sciogliere, una sentenza impossibile da accettare. Bisogna ricominciare dall’inizio. Intanto il tempo passa e l’uomo che ha trascorso una buona parte della sua vita cercando di eludere la giustizia e fuggire alle proprie responsabilità continua a girare il mondo spacciandosi per filantropo.

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