
Allarme PFAS, i pesci che mangiamo sono già contaminati - ecoblog.it
Dal Veneto alla laguna di Venezia, le analisi mostrano concentrazioni record di PFOS: il nostro Paese resta tra i più esposti in Europa.
Tra Padova e la laguna di Venezia le analisi raccontano un quadro inquietante. Nei corsi d’acqua del Veneto, già teatro di una delle più note emergenze ambientali italiane, i campioni prelevati hanno mostrato concentrazioni record di PFOS, una delle sostanze della famiglia PFAS più persistenti e pericolose. Le cifre diffuse dall’European Environmental Bureau (EEB) collocano ancora una volta il nostro Paese in cima alla lista delle aree europee più contaminate, con conseguenze dirette sugli ecosistemi e sulla catena alimentare.
Dati fuori scala tra Padova e Venezia
Il rapporto “Sostanze chimiche che avvelenano le acque e i pesci d’Europa” raccoglie dati dal 2009 al 2023 in sette Paesi, tra cui l’Italia. A Padova, nel canale Fossa Monselesana, i livelli di PFOS nei pesci selvatici hanno raggiunto i 69,1 microgrammi per chilo, quasi 900 volte oltre la soglia di sicurezza proposta dall’Ue. Non si tratta di un episodio isolato: a Campagna Lupia, alle porte della laguna sud di Venezia, i valori restano elevati e confermano una contaminazione diffusa.

L’indagine estende il perimetro anche al Delta del Po, al mantovano e al fiume Secchia. Qui, acque in apparenza limpide nascondono un inquinamento che non si vede ma che si trasmette lungo la catena alimentare, arrivando fino ai consumatori. In Italia, secondo i monitoraggi, tutti i campioni hanno superato i 77 ng/kg stabiliti come limite di sicurezza alimentare. Dati che segnalano un problema esteso e radicato, con una portata ben oltre i confini locali. Il quadro non è diverso nel resto d’Europa. In Svezia, il 24% dei campioni ha superato di 500 volte i valori indicati, in Francia il 19%, in Spagna e in Austria tra il 15 e il 17%. Alcuni campioni hanno mostrato picchi oltre 10.000 volte i limiti. Un fenomeno che, con queste proporzioni, descrive l’urgenza di affrontare un’emergenza che non riguarda più soltanto singoli territori.
Una sostanza vietata ma ancora presente
Il PFOS è stato largamente impiegato in passato in prodotti di uso quotidiano come schiume antincendio, tessuti impermeabili, imballaggi e rivestimenti antiaderenti. Già nel 2008 l’Unione europea ne ha vietato l’utilizzo, riconoscendone la tossicità e la persistenza. Una volta rilasciata nell’ambiente, la sostanza non si degrada, resta per decenni in acque e suoli e si accumula negli organismi viventi. Secondo l’ECHA (Agenzia europea per le sostanze chimiche), il PFOS è tossico per la fauna acquatica, bioaccumulabile e classificato come potenzialmente cancerogeno per l’uomo. In Italia la situazione resta aggravata dal caso Veneto, dove centinaia di migliaia di persone hanno convissuto con falde contaminate. Gli effetti sulla salute sono ancora oggetto di studi e monitoraggi, ma i dati ambientali odierni confermano la prosecuzione di una crisi mai chiusa. Un ulteriore nodo riguarda le norme. Oggi gli Stati membri sono obbligati a monitorare solo il PFOS, mentre la famiglia dei PFAS comprende oltre 10.000 molecole.
Almeno 24 di queste sono ritenute ad alto rischio per la salute pubblica, ma restano fuori dai controlli ufficiali. La Commissione europea ha proposto di aggiornare la lista degli inquinanti e fissare nuovi standard, ma il percorso legislativo è lento e frammentato. Alcuni governi chiedono di rinviare l’applicazione delle regole al 2039, un ritardo che rischia di tradursi in oltre dieci anni di inazione. Il dossier EEB descrive un quadro inequivocabile: i fiumi italiani ed europei sono già compromessi. Senza norme stringenti e interventi immediati, i PFAS continueranno a diffondersi, con impatti duraturi sugli ecosistemi e sulla salute delle comunità che vivono lungo le aree contaminate. I pesci del Po, del Secchia e della laguna di Venezia non sono casi isolati ma segnali concreti di un problema che tocca direttamente la vita quotidiana.