Genova diventa capitale del green con l’orto collettivo urbano più esteso d’Europa: come funziona - ecoblog.it
A Genova, sette ettari di orto collettivo funzionano senza denaro: solo baratto, inclusione e agricoltura condivisa.
Immaginate uno spazio grande quanto dodici campi da calcio, tutto ricoperto da coltivazioni stagionali, ortaggi freschi e piante aromatiche. Succede davvero, e non in campagna, ma a Genova, in una zona urbana chiamata Campi-Incoronata. È qui che si trova l’Orto collettivo Genova, oggi il più grande d’Europa nel suo genere. Il terreno, abbandonato e franoso fino a pochi anni fa, è stato affidato in comodato gratuito all’associazione Quattro Valli, che ha dato vita a un esperimento sociale, agricolo ed economico unico nel suo genere. I volontari hanno bonificato tutto a mano, creando terrazzamenti, seminando e portando la zona a produrre oltre 25 mila piantine di ortaggi. Ma la vera particolarità è un’altra: in questo orto non si usa denaro. Il raccolto si ottiene solo con oggetti utili o servizi in cambio. Un sistema di baratto moderno, radicato nella tradizione e allo stesso tempo attualissimo in un periodo di crisi economica per tante famiglie.
Dove non servono soldi per mangiare: l’orto dove il pomodoro si scambia con attrezzi o manodopera
Il cuore di tutto è Andrea Pescino, ex agronomo e oggi coordinatore del progetto. Nonostante i suoi quasi settant’anni, segue ogni fase dei lavori e scherza spesso sul metodo di scambio: “Da buoni genovesi non buttiamo via nulla”. Ma dietro la battuta c’è una realtà molto concreta. Chi non può permettersi di fare la spesa può portare un vecchio attrezzo agricolo, un elettrodomestico ancora funzionante, o semplicemente prestare la propria competenza professionale. In cambio, riceve verdure fresche, prodotti locali a km zero e soprattutto una dignità che nessun aiuto assistenziale può garantire. È un sistema che ha preso forza col tempo, alimentato dal bisogno ma anche dalla voglia di recuperare un rapporto più diretto col cibo, con la terra e con la comunità.

Il baratto, qui, vale anche per i servizi: un idraulico, ad esempio, può sistemare l’impianto di irrigazione e ricevere cassette di zucchine, pomodori o basilico genovese. Un restauratore può aiutare a sistemare una vecchia struttura e ricevere in cambio cassette di insalata o fagiolini. L’idea è quella di usare quello che si ha, non quello che manca. A settembre è prevista anche la nascita di una piattaforma online per gestire le richieste e le offerte di scambio, un sistema che renderà il tutto più fluido e accessibile anche a chi non vive nella zona di Campi.
Il progetto si sta estendendo anche fuori dai confini cittadini. A gennaio, ad esempio, è nata una collaborazione con OrtoBee – Rete agricola, che ha permesso la riqualificazione di un bosco sulle alture di Bavari. In quel caso, il terreno è stato trasformato in un centro per corsi e laboratori formativi. Ogni appezzamento ha un uso, ogni mano trova qualcosa da fare. Il baratto non è solo una modalità economica alternativa, ma un motore di relazioni e un modo per non sprecare nulla in una società che invece getta via anche ciò che può ancora servire.
Inclusione sociale, formazione agricola e scambio di competenze: l’orto come cantiere umano
Una delle parti più interessanti dell’esperienza dell’Orto collettivo Genova è la partecipazione attiva dei richiedenti asilo, che qui trovano un modo per integrarsi, imparare un mestiere e contribuire in modo concreto alla comunità. Il percorso comincia con la formazione in aula, dove apprendono nozioni basilari sull’agricoltura e sull’ecologia, fino a ottenere il diploma di costruttore del paesaggio. Da lì passano direttamente alla pratica, lavorando fianco a fianco con i volontari italiani, spesso pensionati o persone di mezza età. C’è un contatto umano autentico, fatto di fatica fisica, consigli pratici, pasti condivisi e soddisfazione per un lavoro che si vede crescere ogni giorno.
Nel progetto convivono generazioni e culture diverse. C’è chi ha lavorato la terra per tutta la vita e chi non ha mai tenuto in mano una zappa. C’è chi parla il dialetto ligure e chi sta imparando l’italiano. Eppure, tra i filari e i terrazzamenti, si crea un equilibrio che raramente si trova altrove. Nessuno è solo. Nessuno è inutile. L’orto diventa un cantiere umano, dove si produce cibo, sì, ma anche legami. Chi partecipa, difficilmente smette. Perché ritrova uno scopo, uno spazio dove sentirsi parte di qualcosa.
Il progetto ha anche un impatto ambientale positivo: recupera aree degradate, riduce i trasporti, abbatte gli sprechi. Ogni oggetto che entra nell’orto ha una seconda vita. Ogni servizio offerto, ogni ora di lavoro, si trasforma in nutrimento, per la terra e per le persone. E in un momento storico in cui tutto sembra accelerare, l’Orto collettivo Genova rallenta e restituisce senso a quello che normalmente scivola via.
