
Da oggi non comprerai più il merluzzo al supermercato - ecoblog.it
Navi industriali lunghe decine di metri, tonnellate di merluzzi e danni agli ecosistemi marini: ecco cosa si nasconde nella filiera dei prodotti surgelati.
Al largo dell’Alaska, nel cuore del Mare di Bering, si muove una delle flotte di pesca industriale più efficienti – e discusse – del mondo. Grandi navi come la Arctic Storm e la Arctic Fjord operano giorno e notte, trainando reti lunghe centinaia di metri, capaci di raccogliere tonnellate di merluzzo dell’Alaska a ogni passaggio. Il pesce, apprezzato per la sua carne bianca e utilizzato per bastoncini, filetti e altri prodotti da banco surgelati, è solo la punta visibile di un sistema molto più esteso. Un sistema che, dietro la facciata della sostenibilità certificata, comporta danni irreparabili al fondale marino e solleva interrogativi crescenti tra biologi e attivisti.
Reti industriali e danni agli habitat bentonici
Il processo di pesca avviene con reti a strascico capaci di raggiungere il fondo oceanico, spazzando via ogni cosa sul loro cammino. Il termine tecnico è “bottom trawling”, e nonostante siano state introdotte tecnologie per ridurre gli impatti collaterali – come i pannelli di sfuggita per i salmone chinook – l’impatto sul benthos resta drammatico. Le immagini raccolte nei pressi delle aree di pesca mostrano una superficie spoglia, simile a una cava. Nessuna traccia di spugne, alghe, piccoli crostacei o coralli molli. Solo sabbia e detriti.

Questa pratica colpisce anche specie non bersaglio come il granchio tanner e il granchio king, che trovano rifugio e nutrimento proprio tra le strutture che vengono distrutte. Gli scienziati dell’Alaska Fisheries Science Center hanno segnalato come alcuni habitat impieghino oltre trent’anni per rigenerarsi – ammesso che ci riescano. A rendere il quadro ancora più instabile ci si mette il cambiamento climatico, che riduce la disponibilità di ossigeno nelle acque profonde, aumentando la fragilità delle catene trofiche locali.
La retorica della sostenibilità sotto esame
Una larga parte dei prodotti a base di merluzzo venduti nei supermercati europei e americani porta etichette con scritto “sostenibile”, grazie a certificazioni come il MSC. Ma secondo numerosi studiosi, il termine viene semplificato fino a diventare ingannevole. Il solo rispetto delle quote di cattura o la riduzione del bycatch non bastano per definire davvero sostenibile un sistema che impiega reti larghe quanto cinque campi da calcio, capaci di modificare fisicamente un intero ecosistema.
Il problema è anche culturale: la pesca del merluzzo alimenta catene globali che rispondono a una domanda sempre più alta. Catene di fast food, mense scolastiche, ristorazione collettiva. In questo scenario, il concetto di “sostenibilità” rischia di diventare uno strumento di marketing, mentre il costo reale viene pagato dagli oceani.
Esperti della University of Washington e attivisti locali chiedono una revisione dei criteri con cui vengono rilasciate le certificazioni, una maggiore trasparenza nei processi di filiera e l’introduzione di sistemi alternativi. Alcuni propongono l’adozione di tecnologie a basso impatto o la rotazione obbligatoria delle zone di pesca per consentire la rigenerazione dei fondali. Altri, più radicalmente, puntano su fonti proteiche alternative per ridurre la pressione sulle risorse marine.
Nel frattempo, i pescherecci continuano a solcare il Mare di Bering, inseguendo tonnellate di pesce ogni giorno. E ogni filetto confezionato che arriva sui banchi dei supermercati porta con sé, invisibile ma reale, il segno di quel passaggio.