Seguici su

Cronaca ambientale

Rifiuti di Roma: i punti dell’inchiesta

Sono quattro le chiavi per comprendere l’inchiesta della procura di Roma sull’associazione a delinquere finalizzata al traffico di rifiuti nella Capitale e nel Lazio

Soldi, gabbiani, monnezza e potere: sono questi i quattro punti cardine dell’inchiesta dei pm romani Alberto Galanti e Maria Cristina Palaia, che questa mattina all’alba hanno fatto eseguire dai carabinieri del Noe 8 ordinanze di custodia cautelare ad altrettanti “pezzi grossi” del panorama rifiuti romano e laziale.

Un indagine complessa, partita fondamentalmente da un verbale della Commissione d’inchiesta sugli illeciti connessi al ciclo dei rifiuti, redatto nel lontano 1997 e che potete leggere integralmente qui. L’elefantiasi della giustizia italiana, la complessità del “sistema” di illeciti e qualche errore procedurale non hanno arrestato lo Stato, che con il colpo di toga di oggi compie oggi una vera rivoluzione nel panorama ambientale della città di Roma.

L’inchiesta dei pm Galanti e Palaia, coordinati dal procuratore generale di Roma Giuseppe Pignatone, si è snodata su quattro direttrici principali, quattro linee che si uniscono in un unico punto: l’associazione a delinquere. Attenzione, non parliamo di mafia (almeno, non nell’accezione “classica”, nonostante a indagare in materia ci siano anche gli uomini della Dda) ma di imprenditoria: colletti bianchi e uomini dello Stato che, secondo le teorie dei pm, impongono i prezzi, impongono gli aumenti degli stessi, impongono il sistema (illecito) di smaltimento.

L’inchiesta

[img src=”https://media.ecoblog.it/f/fbe/vallegaleria-586×439.jpg” alt=”” height=”439″ title=”vallegaleria-586×439″ class=”aligncenter size-full wp-image-121547″]

Il primo tassello dell’indagine della magistratura è rappresentato dalla gestione dell’impianto di raccolta e trattamento rifiuti di Albano Laziale: l’impianto, il cui gestore è la società Pontina Ambiente (riconducibile alla galassia societaria della proprietà Manlio Cerroni), ha gestito la tritovagliatura dei rifiuti dei Castelli Romani producendo CDR di pessima qualità. Le percentuali di CDR effettivamente avviato a valorizzazione non si avvicinavano, secondo gli inquirenti, agli standard prestazionali di progetto (43%), alle soglie indicate nel piano regionale di gestione dei rifiuti (35%), alla soglia di produttività del 29% sopra indicata o alla soglia minima del 25% indicata nel decreto commissariale n. 15/2005 come “tasso di recupero minimo”. Questo, oltre a garantire bassi costi al gestore, provocava periodicamente il superamento delle volumetrie in discarica (cosa avvenuta più volte, negli anni, anche a Malagrotta)

Un secondo elemento chiave per comprendere la natura delle indagini, ed il loro sviluppo, si trova sempre oltre il Grande Raccordo Anulare e sempre ad Albano Laziale: è il termovalorizzatore che si vorrebbe costruire a ridosso della discarica e degli impianti di TMB a far spiccare Piero Marrazzo come indagato nell’inchiesta. Secondo i pm il Commissario Straordinario per l’emergenza Rifiuti della Regione Lazio, e in seguito la stessa Regione per il tramite del suo Presidente, mettevano il Consorzio Co.E.Ma. (unione tra Pontina Ambiente, galassia Cerroni, ed Ecomed, composta da Ama e Acea, municipalizzate del Comune di Roma) nelle condizioni di costruire un impianto di termovalorizzazione su un terreno di proprietà Pontina Ambiente, adiacente alla discarica e all’impianto di trattamento meccanico biologico dei rifiuti di Albano, nonché di usufruire, nell’ambito della gestione di tale impianto, dei contributi pubblici CIP 6 (contributi erogati ad aziende produttrici di energia da fonti energetiche rinnovabili o assimilate).
Un impianto che, tra l’altro, ha ricevuto negli anni numerosi pareri contrari basati su fattori escludenti piuttosto seri: la vicinanza con l’inceneritore di Colleferro, il parere negativo scritto come un monito sulla VIA, decisione ribaltata da una “colossale montatura”, scrivono i magistrati, costruita ad arte da Cerroni e Presutti.

Altro tassello chiave delle indagini è l’invaso di Monti dell’Ortaccio, sul quale si discute da anni: “l’unica soluzione” alla chiusura di Malagrotta secondo Cerroni e, meno ovvio, secondo il commissario straordinario ai rifiuti Goffredo Sottile. Secondo i magistrati quell’invaso di oltre 3 milioni di metri cubi (abusivo, possibile grazie anche ad un’alterazione delle fotografie allegate alla richiesta del consorzio, cancellando l’esistenza del laghetto al fine di non far risaltare il danno idrogeologico) ha comportato un’incisiva trasformazione urbanistica; Co.La.Ri. ha smaltito le rocce e terre da scavo (da qualificarsi come rifiuti speciali) all’interno della discarica di Malagrotta, “simulando l’esistenza di titoli autorizzativi di fatto inesistenti” e contribuendo all’esaurimento delle volumetrie. Un profitto da 8 milioni di euro per la E.Giovi Srl.

Ultimo elemento cardine per comprendere l’inchiesta sono le tariffe per lo smaltimento dei rifiuti: una vera e propria manipolazione del libero mercato, possibile a Cerroni e al suo storico collaboratore Bruno Landi (ex governatore del Lazio) grazie alla complicità di funzionari della Pubblica Amministrazione: questi ponevano in essere una serie di condotte illecite volte ad impedire alla società Rida Ambiente Srl, concorrente di Cerroni, di entrare nel ricchissimo business. In mancanza di concorrenza è stato possibile fare il prezzo migliore per anni, salvo chiedere oggi una pioggia di milioni per bonifiche e controlli.

Gli illeciti sarebbero stati possibili in particolare grazie all’uomo di Cerroni in Regione, Luca Fegatelli (capace persino di allontanare funzionari regionali troppo corretti ed inclini al libero mercato): un ruolo che gli inquirenti definiscono “egemone” all’interno della Regione Lazio.

Ultime novità