Svuoti l’armadio e ci guadagni: dove ottenere sconti immediati con i capi usati - ecoblog.it
I marchi premiano chi restituisce vestiti usati con sconti sugli acquisti. Ma restano dubbi sulla trasparenza del riciclo.
C’è un gesto semplice che sembra mettere d’accordo consumatori e aziende: portare in negozio vestiti usati in cambio di sconti per acquisti futuri. Un’idea che unisce risparmio, sostenibilità e circolarità. Almeno sulla carta. Perché dietro queste iniziative — sempre più frequenti tra le grandi catene di abbigliamento — si nasconde un rischio concreto di greenwashing, se non viene garantita piena trasparenza sulla destinazione finale dei capi ritirati. Il consumatore guadagna uno sconto, ma spesso non sa dove finisce davvero ciò che ha lasciato.
Da H&M a OVS, tutti i marchi che offrono sconti in cambio di capi usati (e cosa succede dopo)
Le formule sono simili: si consegnano vestiti non più usati, in buono stato o meno, si inseriscono in sacchetti trasparenti e si ricevono in cambio voucher sconto da 5 a 10 euro, utilizzabili con una spesa minima. Ma dietro il meccanismo — che stimola la fedeltà del cliente e incentiva nuovi acquisti — non sempre è chiaro come vengono trattati i capi restituiti. Alcuni vengono effettivamente riutilizzati o riciclati. Altri, secondo le inchieste di Greenpeace, verrebbero esportati verso discariche in Africa o Asia.
Il programma Garment Collecting di H&M è stato uno dei primi: per ogni sacchetto di indumenti consegnato in negozio, si riceve un buono da 5 euro valido con una spesa minima di 40. Lo slogan è “La moda non merita di finire nei rifiuti”, ma diverse ONG ambientali hanno accusato il marchio di non garantire il tracciamento trasparente dei capi. Secondo alcuni report, una parte finirebbe fuori dai canali ufficiali del riciclo.

OVS, invece, ha scelto di collaborare con Humana People to People, raccogliendo abiti in buone condizioni dal 2022 al 2025. Anche qui, in cambio, 5 euro di sconto con spesa minima di 40, ma il focus dichiarato è più solidale: gli abiti donati vengono distribuiti alle famiglie in difficoltà o rivenduti nei circuiti Humana per finanziare progetti sociali.
Marchi come & Other Stories propongono una formula simile: si può portare un sacco con capi usati di qualsiasi marca e ricevere un voucher del 10%, da usare entro 3 mesi. Il claim è legato all’economia circolare, ma manca un dettaglio chiaro sul processo di riutilizzo. C’è poi chi punta sul riciclo diretto della fibra. È il caso di Rifò, realtà più piccola che premia la consegna di maglioni in lana e cashmere o jeans, utilizzati per produrre nuovi capi attraverso un ciclo chiuso di rigenerazione. Il buono sconto ottenuto ha valore variabile, ma qui la filiera è tracciabile e visibile, e il cliente può seguire cosa viene fatto con ciò che ha lasciato.
Anche Intimissimi ha promosso nel 2025 una campagna simile con Humana: in cambio di cinque capi usati (esclusi reggiseni e slip), si riceve un buono da 5 euro con una soglia minima di spesa di 50 euro. Campagna attiva solo per chi si registrava al portale, e durata pochi mesi.
Infine Calzedonia ha lanciato il suo programma di take back: ritiro dei capi usati in negozio e buoni da 5 euro. In passato ha ritirato anche costumi da bagno, offrendo uno sconto sui nuovi acquisti. Chiude l’elenco Adidas, che attraverso il programma Choose to Give Back propone una modalità diversa: spedire i capi usati di qualsiasi marca tramite etichetta digitale, ricevendo credito da spendere nei negozi partner di ThredUp, piattaforma americana di seconda mano.
Green o greenwashing? Il confine è nella trasparenza (che spesso manca)
Se l’idea di scambiare abiti vecchi con sconti nuovi piace ai consumatori e fa bene al portafoglio, resta il tema centrale: la trasparenza. Spesso le aziende non comunicano chiaramente cosa succede ai capi raccolti. Alcuni vengono effettivamente riciclati in nuove fibre. Altri finiscono in vendita nel mercato dell’usato, in Italia o all’estero. Ma una parte non trascurabile, secondo le indagini ambientali, finisce in discariche illegali o viene bruciata, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo.
Il rischio è quello di promuovere un comportamento sostenibile in apparenza, ma che alimenta nuovo consumo invece di frenarlo. La logica del buono sconto spinge infatti il cliente a comprare di più, non necessariamente meglio.
Per rendere davvero efficace il modello, servirebbe un tracciamento certificato dei capi consegnati, un limite all’uso dei voucher e informazioni chiare al momento della consegna. Oggi, tutto questo è lasciato alla discrezionalità dei marchi, con pochi controlli esterni.
In attesa di normative più rigorose, il consiglio resta uno: scegliere solo marchi che garantiscono trasparenza, tracciabilità e reale impegno ambientale. Perché uno sconto vale poco, se dietro c’è un sistema che continua a generare scarti.
